Anfora di Baratti anteprima

L’anfora di Baratti, la storia di un capolavoro ritrovato

Anfora di Baratti
Anfora di Baratti

La celebre anfora d’argento di Baratti si ammira nel Museo Archeologico del territorio di Populonia, situato a Piombino. Realizzata probabilmente alla fine del IV secolo ad Antiochia di Siria ed andata persa nel corso di un antico naufragio, è un vaso in argento quasi puro dal peso di 7,3 chili, alto 61,5 centimetri e con un diametro massimo di 35,45 centimetri. Poteva contenere più di 22 litri di vino ed era forse destinata ad abbellire una mensa rituale.

L’originalità decorativa di questo splendido manufatto e la storia che lo ha riportato alla luce dalle acque del golfo di Baratti meritano di essere approfondite e conosciute.

La forma ovoide con il collo alto, delimitato da un collarino dal quale in origine partivano le due anse che giungevano sulla spalla, anse forse figurate, è stata realizzata da un artigiano che – con la lavorazione a martello, oppure con la tecnica della fusione a cera persa – ha trasformato un cilindro cavo in argento nell’aspetto attuale. La decorazione, formata da 132 medaglioni ovali figurati a rilievo disposti su dieci fasce sul collo e sul corpo, è unica: la forma di questi clipei rievoca quella delle gemme, come se il vaso fosse incastonato da cammei, con una corona di foglie di quercia che avvolge la base del collo.

Primi tre registri dell'anfora
Primi tre registri dell’anfora

La tecnica con cui i medaglioni dell’anfora di Baratti furono realizzati è ancora incerta: essi racchiudono figure maschili e femminili della mitologia classica, che furono probabilmente “stampati” con una sorta di conio simile a quello delle medaglie, con le figure e le cornici poi rifinite a cesello. La stessa disposizione dei clipei sembra rispondere a un criterio preciso, nella cadenza numerica e nei temi scelti: sul collo si osservano dodici busti di figure maschili con il berretto frigio, suddivisi in due registri, alludenti ai mesi o ai segni dello zodiaco; alla base del collo vi sono altre quattro coppie di busti analoghi, riferimento alle stagioni (le teste con il berretto frigio, in analogia a quelle dei mesi) e alle parti del mondo (la Ionia, la Frigia, la Lidia e l’Egitto, oppure l’Europa, l’Africa, la Persia e l’India). Sul corpo del vaso le figure intere si dispiegano su sette registri (sette come i pianeti del sistema tolemaico), ciascun registro composto da sedici medaglioni (sedici come le parti del mondo).

Collo dell'anfora di Baratti
Collo dell’anfora di Baratti

I due registri più esterni (il primo e il sesto) dell’anfora di Baratti sono composti da danzatori e suonatori dai lineamenti infantili, seguiti (nei registri secondo e quinto) da cortei dionisiaci di satiri, menadi e coribanti, figure di età adulta: queste quattro fasce esterne racchiudono i registri centrali (terzo e quarto), che presentano medaglioni più grandi dei precedenti. Entrambi sono dedicati alle divinità: nel terzo registro si osservano le tre divinità primordiali – Urano, Gea e Titano – seguite da un satiro con Dioniso e Arianna, due coribanti che accompagnano Cibele e Attis, quindi Ares, Afrodite ed Adone, Giacinto, Apollo e Dafne. Nel quarto registro, indubbiamente il più importante, si susseguono forse Paride, Enone e il figlio Corito, la triade Artemide, Niobe e Apollo, i Dioscuri che accompagnano Elena e Leda, infine i personaggi del giudizio di Paride (Paride, Zeus, Era, Afrodite, Vittoria, Atena). Nel settimo registro, infine, posto alla base del corpo dell’anfora, si svolge la favola di Amore e Psiche.

La simbologia che emerge dalla lettura della decorazione dell’anfora di Baratti è complessa e unisce il pantheon al centro del vaso e il corteo iniziatico dispiegato sulle fasce esterne con i miti di Cibele e Attis, oltre a rappresentare il tempo (i mesi e le stagioni), lo spazio (le quattro regioni del mondo), e l’immortalità (Amore e Psiche). Per questo motivo si ritiene che l’opera fosse utilizzata durante qualche cerimonia di culto, destinata a una mensa rituale.

Leda
Leda

L’anfora di Baratti testimonia inoltre una storia rocambolesca: proveniente forse da una manifattura di Antiochia (come lasciano ipotizzare l’apparato decorativo e i ritrovamenti di oggetti simili, prodotti nelle botteghe siriane di maestri argentieri) fece naufragio mentre era diretta verso una destinazione a noi ignota. Nel 1968 fu casualmente rinvenuta nelle acque fra Baratti e San Vincenzo da un pescatore di nome Gaetano Graniero, che a bordo del suo peschereccio l’aveva involontariamente trascinata sul fondale e quindi issata a bordo, scambiandola per un “secchio arrugginito“. Il pescatore racconta: “Se fosse stato per me lo avrei ributtato in mare! In quei giorni oltretutto la pesca era stata poco o niente. Invece, i miei uomini, appena rientrati nel porto di Livorno, decisero di portare l’oggetto al bar dove erano soliti andare, così, tanto per farla vedere”.

Quando la signora Graniero venne a sapere dell’accaduto si recò subito al bar per recuperare “il secchio”: “anche se per me era tutta sporca – raccontò – a me piaceva e volevo tenerla a casa nostra, non la volevo vendere. La misi sotto la culla dell’ultima nata”. I due ignoravano l’obbligo di denuncia dei ritrovamenti di interesse artistico ed archeologico, previsto dalla Legge: un amico di famiglia fece loro scrivere una lettera alla Segreteria particolare della Presidenza della Repubblica per offrire il ritrovamento in dono al Presidente Saragat, nella speranza di ottenere una forma di riconoscimento economico.

Sesto e settimo registro
Sesto e settimo registro

Dopo alcuni giorni il Nucleo di Polizia Tributaria si presentò a casa Graniero per sequestrare l’anfora di Baratti, che esaminata dalla Soprintendenza Archeologica di Firenze fu immediatamente riconosciuta nel suo valore. Il pescatore ricevette 2 milioni di lire quale ricompensa corrispondente a un quarto della stima dell’opera, secondo la perizia dell’epoca.

Il vaso, che non solo presentava su tutta la superficie incrostazioni calcaree ma che era stato deformato in più punti a causa dell’involontario trascinamento sul fondale marino, venne sottoposto a uno straordinario restauro a cura della Soprintendenza di Firenze: la delicata e complessa operazione si svolse fra il 1972 e il 1980, e permise di restituire a questo capolavoro il suo aspetto attuale.

Altre informazioni: per approfondire la storia e la conoscenza dell’anfora di Baratti consiglio di consultare la guida all’opera “Il naufragio di un mondo” di Giandomenico De Tommaso e Cinzia Murolo, cui ho anche fatto riferimento per la redazione di questo articolo. Al fine di organizzare la visita del Museo archeologico del territorio di Populonia suggerisco di consultare il sito internet dedicato. Consiglio inoltre di visitare Populonia, l’antica città etrusca che controllò la rada di Baratti, costruita su un promontorio proteso verso il Tirreno: un borgo affascinante, con un magnifico parco archeologico dislocato in vari luoghi, in un contesto ambientale davvero unico.

Un altro ritrovamento eccezionale – uno dei più importanti del Novecento, anch’esso restaurato dalla Soprintendenza di Firenze – fu quello dei bronzi di Cartoceto, uno straordinario gruppo bronzeo ricoperto di foglia d’oro (come la Quadriga marciana a Venezia e il Marco Aurelio a Roma) rinvenuto casualmente durante lavori agricoli nel comune marchigiano di Pergola.

Altre immagini dell’anfora di Baratti:

Mappa:

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